Descrizione
Delia sorge su un pendìo che guarda Libeccio e tende ad estendersi verso est, a ridosso del colle detto della Croce, assumendo la forma caratteristica di un ampio anfiteatro.
Ha una quota di m.447 sul livello del mare.
È circondata di ubertosi colli, colmi di mandorli ed ulivi. Vi si gode da una parte l’ampio panorama delle colline antistanti che scendono gradatamente verso il Salso e delle colline che sovrastano alla Piana di Gela.
Dall’altro si gode il non meno gradito panorama dei colli antestanti Campobello e Naro, il cui antico fortilizio si staglia all’orizzonte nei suoi pittoreschi contorni. Dalle ultime case di Monserrato si domina la visuale dell’ampio semicerchio che va da Canicattì, tocca le alture rocciose delle Madonie e permette di vedere, nelle giornate limpide, il pennacchio fumoso dell’Etna.
Da Delia si può quindi godere un paesaggio vario ed ameno con aspetti pittorici di graditissimo effetto.
A qualche centinaio di metri dall’abitato sorge, su scoscesa rupe, un vecchio fortilizio, il Castello Normanno, di recente restaurazione.
Si vuole che sul punto in cui si trova attualmente Delia sorgesse una volta l’antica Petiliana o Petilia. Vito Amico dice che il nome Delia sarebbe derivato al paese dal fatto che Petiliana era ornata di un tempio sacro alla dea Diana.
Il nome Diana, che molte ragazze ereditavano, con frequenza fino a decenni fa, dalle loro ave, sembrerebbe confermare questa ipotesi.
Qualcuno vorrebbe che il nome Delia fosse di etimologia araba e significherebbe vigneto.
Nel De Spucches troviamo che il Comune di Delia fu fondato da Gaspare Lucchesi, barone di Delia, tra il 1581 e il 1600.
Nel 1623 un suo discendente, Giuseppe Lucchesi, viene nominato Marchese di Delia. Nel 1622, dal vescovo di Agrigento, viene eretta a parrocchia la chiesa Madrice.
Il 23.10.1689, la parrocchia di Delia viene eretta ad Arcipretura, mentre la chiesa fu ampliata nel 1791, ma la navata centrale è di costruzione anteriore al secolo XVII.
Nel 1698, in seguito al matrimonio di Maria, unica figlia del Marchese Nicola Antonio Lucchesi, con Ferdinando Gravina, Principe di Palagonia, Delia passò a questa famiglia che l’ha tenuta sino al secolo scorso, epoca in cui essa vendette tutti i diritti alla famiglia Tinebra. Delia, che apparteneva alla diocesi di Agrigento, nel 1844, con bolla di Gregorio XVI, passò alla diocesi di Caltanissetta. Vito Amico ci dà notizia di un censimento della popolazione di Delia avvenuto verso il 1650, periodo in cui il paese contava 288 case e 1071 abitanti.
In un censimento del 1713 le case salgono a 403 e gli abitanti a 1705.
Delia patriottica non mancò di dare il suo, sia pur modesto, contributo alla causa del Risorgimento. Infatti, serba ancora il ricordo di alcuni picciotti che parteciparono alla liberazione della Sicilia dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala.
Dopo il plebiscito e l’annessione all’Italia, la storia di Delia rientra nel grande quadro nazionale.
La preistoria
La storia del territorio di Delia è indissolubilmente legata alle sue risorse naturali e profondamente dipende dalle sue caratteristiche strategico-difensive.
Tali caratteristiche favorirono l’afflusso migratorio di popolazioni alla ricerca di un retroterra fertile, ricco di cacciagione e bene adatto al controllo delle zone interne. I Sicani della prima età del bronzo, abitatori dei monti, che si stabilirono sicuramente in zone non lontane dal territorio deliano, è molto probabile che abbiano creato degli insediamenti anche nelle vicinanze del nostro paese.
La contrada sicuramente più ricca di reperti archeologici (materiali litici, frammenti fittili e vasellame) e sede di insediamenti abitativi che vanno dal periodo paleolitico medio fino alla protostoria è quella di Afflitto (Fritto) zona molto fertile e ricca d’acqua.
Contrada Cappellano è un’altra zona sede di insediamenti umani dell’antica età del bronzo: ne sono testimonianza alcune tombe a forno, di cui una a doppio forno, in ottimo stato di conservazione, situate nel versante della collinetta rocciosa che guarda occidente lungo la S.S. 190 che collega Delia a Caltanissetta.
Ricchissime di tombe a forno sono le diverse alture rocciose di contrada Castellazzo e Gebbia Rossa anch’essa sede di insediamenti umani dell’età del bronzo e ricca di vasellame riconducibile al periodo Castellucciano.
Anche monte Comune e contrada Grasta sono sicuramente aree di interesse archeologico. Inoltre, il vasellame finemente decorato che i nostri contadini spesso trovano nei campi fa ritenere che il territorio di Delia, essendo sicuramente un’interessante e ricco serbatoio di documenti archeologici, possa rappresentare un importante laboratorio per lo studio non solo della ellenizzazione della zona ma, prima ancora, della sua protostoria.
Il Castello di Sabuci (Lu Castiddrazzu)
Gli Scavi archeologici(1981 e 1987)In due campagne di scavi gli esperti archeologi hanno potuto appurare che il sito in cui insiste il Castellazzo è stato popolato già nel terzo millennio a. C.
I più antichi manufatti recuperati documentano una fase castellucciana.
Una fase successiva è testimoniata da frammenti di ceramica indigene, ceramica corinzia, di vasi a vernice nera, di anfore greco italiche e altri manufatti riferibili all’età arcaico-classica ed ellenistica.
Per quanto attiene tutta l’epoca romana non è emerso alcun ritrovamento, mentre per l’epoca medievale i rinvenimenti testimoniano, tra la seconda metà del X e la prima metà del XII secolo, una presenza islamica con un tenore di vita medio alto.
Questa prima fase di vita si concluse con una distruzione ed un incendio legato evidentemente alla cacciata degli arabi da parte dei normanni dopo la metà del XII secolo.
Dopo questa prima fase, gli esperti hanno evidenziato una nuova fase di recupero e di ripresa della vita castellana nel XIII secolo.
Dopo questo periodo si ha di nuovo un’altra distruzione del castello, quella ordinata da re Federico, nel 1362, per paura che il castello potesse servire da covo per i ribelli.
Nel 1436 Guglielmo Raimondo Moncada ne chiede la ricostruzione. Con il rifacimento e l’ampliamento si apre una nuova fase che quella di massima abitazione e di maggiore splendore del castello.
Questo periodo non dovette durare però a lungo perché nel XVI secolo non c’è più traccia di abitazione.
Alla fine del XV secolo, infatti, le numerose cisterne e i profondi pozzi furono riempiti con materiali abitativi circostanti.
Nel castello di Sabuci si riscontrano consistenti e sicure tracce normanne.
I cocci di vasellame ritrovati negli ultimi scavi ne danno un’ulteriore conferma ma é firma della mano normanna, che c’é ne da la completa sicurezza.
La ricostruzione del castello nel 1436 da parte del Moncada servì ad ampliarlo nella sua parte occidentale con la piazza d’armi e nella zona ad oriente con una nuova entrata coperta dal tetto a volta e la rampa di scale che porta al 2° livello del castello.
Negli scavi dell’ultimo intervento di restauro sono emersi quattro livelli, Il primo, più basso a nord-est, sale verso l’ingresso coperto con una volta a botte archiacuta tramite una rampa dove si sono ritrovate consistenti tracce della vecchia costruzione che testimoniano un’abitazione del castello antecedente la ricostruzione del Moncada.
In particolare è emersa l’esistenza di un pendio molto ripido e scosceso che testimonia che in origine il castello dovette essere una costruzione quasi a nido d’aquila e di conseguenza perfettamente inaccessibile se non in qualche punto di più facile passaggio che poteva essere facilmente controllato e difeso dalle milizie della guarnigione.
Nel piazzale d’armi (recinto alberato) a ponente del castello sempre nel primo livello sono emersi diversi ambienti abitativi del periodo del restauro ed ampliamento del castello del 1436 che è quello che è arrivato fino a noi.
Il secondo livello corrisponde all’estradosso della volta d’ingresso.
Nel terzo livello, a settentrione, è stato recuperato l’unico ambiente interno del castello coperto con una volta fortemente archiacuta e nel quale si aprono cinque feritoie: due ad occidente e tre ad oriente.
Da qui una scaletta sale al quarto livello caratterizzato, sul lato meridionale, da un camminamento merlato che conduce ad una struttura absidata che fa pensare alla cappella dei feudatari. Sul lato settentrione sempre del quarto livello sono presenti i resti della torre nord con un ambiente destinato alla residenza del castellano con quattro magnifiche finestre sulla parete occidentale.
I ritrovamenti venuti fuori dagli ultimi scavi archeologici consistono in manufatti dell’ XI e inizio del XII secolo che sono di natura più che normanna quasi sicuramente del periodo arabo del castello.
Sono invetriate piombifere che confrontate con altri ritrovamenti nella zona di Agrigento sono da collegare ad una produzione di ceramiche a boli gialli proveniente dalla Sicilia centrale.
L’enorme quantità di ceramiche ritrovate nel castellazzo databili tra il XII e il XVI secolo sono la dimostrazione che esso durante i secoli fu adibito, più che come centro abitativo e residenziale, come luogo dove venivano concentrate le riserve idriche e soprattutto quelle alimentari da servire alle truppe militari di passaggio o ad altri castelli più abitati.
Periodo arabo
Sulla S.S. 190 ad un km. circa dall’abitato si staglia da una collina rocciosa “lu castiddrazzu” un poderoso castello, baluardo per la difesa delle coste meridionali dell’isola e dell’alta valle del Gibbesi (affluente di destra del Salso).
Il 18 giugno dell’anno 827, i Musulmani sbarcano a Mazara per iniziare quella lunga conquista della Sicilia durata settant’anni.
Dal 827 fino al 1091, data della definitiva conquista dei Normanni, la Sicilia farà parte dell’Occidente arabo-islamico e subirà per circa 250 anni quel processo di “acculturazione araba” che ha inciso profondamente sulla formazione dell’identità siciliana.
Gli arabi sbarcarono a Mazara del Vallo e con due eserciti puntarono, uno su Palermo e l’altro su Mineo, e come dice lo storico arabo An Nuwayru: “marciarono, prendendo lungo il loro cammino delle Rocche (grosse fortificazioni) e facendo scorrerie, finché arrivarono a Mineo”.
In considerazione che il territorio dove sorgerà Delia si trova lungo la traiettoria che va da Mazara a Mineo e molto probabile che il suo “Castellaccio”, una roccaforte bizantina, fu espugnato proprio in questo periodo dell’avanzata araba.
Lo storico e geografo Al Idrisi di origine marocchina autore della celebre opera geografica voluta da Re Ruggero II nota come “Libro di Ruggero” così scrive: “…da Naro a Canicattì vi sono, in direzione nord, 10 miglia e fino a Sabuci ne corrono 10 in direzione est.
Uguale distanza tra Canicattì e Sabuci, questa posta a levante di quella; al-Minshar dista invece da Sabuci 11 miglia in direzione sud est.
Sabuci è castello elevato, prospero e popoloso; alla ricchezza delle sue terre si devono le doviziose derrate una vera benedizione di Dio e le infinite distese delle colture”.
Le coordinate che ci dà Al Idrisi per localizzare il castello di Sabuci corrispondono con estrema precisione e senza alcuna ombra di dubbio a quelle che potremmo usare per localizzare il castello di Delia il cosiddetto “Castellaccio”.
Ad avvalorare poi, la tesi che il “Castellaccio” di Delia era il famoso castello di Sabuci sono stati gli scavi archeologici condotti nel decennio scorso dalla Sovrintendenza alle Belle Arti di Caltanissetta, i cui risultati sono stati illustrati dai loro esperti nel convegno sul castello durante i festeggiamenti per la ricorrenza del 400° anniversario della fondazione di Delia.
Alla luce di questi dati storici ed archeologici si può pertanto, ritenere completamente priva di fondamento la tesi dello storico C. Genovese che ha collocato Sabuci tra la contrada Grottarossa e Pizzo Candela nel territorio di Serradifalco dove a parte qualche toponimo (Savuco, Sabucia) non vi è alcuna traccia o resti di un castello così famoso e teatro di battaglie e di guerre sia del periodo arabo sia di quello normanno, svevo e aragonese.
Diversamente, nelle vicinanze del nostro “Castellazzo” esiste nella zona sud-orientale della Comarca di Naro la contrada Sabuci che Giuseppe Candura nella sua “ Storia di Sicilia: Naro il Santo – La Comarca” a pagina 183 dice di essere uno dei centri di produzione della “cannamele”.
Inoltre esiste anche nelle vicinanze del castello la contrada Sciabani.
Quindi gli arabi dopo la conquista sicuramente fortificarono quello che un tempo era una rocca bizantina e diedero vita ad un casale ai piedi del castello che come testimonia Al Idrisi divenne prospero e popoloso grazie alle ricchezze delle sue terre e lo chiamarono Sabuci che in arabo “As Sabuqac” significa olivo selvatico per la presenza di numerose piante d’ulivo che ancora oggi ornano il solitario e maestoso maniero di Delia.
Queste note storiche sono avvalorate anche dalla tradizione orale che vuole gli arabi possessori del castello di Sabuci: la leggenda plutonica arabo-deliana.
In Sicilia vi sono una innumerevole quantità di leggende sui tesori nascosti, le cosiddette “Truvaturi”.
Tali leggende vengono chiamate “plutoniche” dal dio Plutone, fratello di Giove e re del mondo sotterraneo.
Il fondamento storico di tali leggende sta nel fatto che i siciliani all’arrivo dei mussulmani nascosero i loro risparmi sotto terra ma anche gli arabi nascosero i loro tesori all’arrivo dei normanni.
Questo dato storico contornato dalla magica fantasia orientale ha dato origine a tante leggende sicule-arabe.
Anche Delia, come tantissime altre località della nostra Isola, vanta un tesoro nascosto: “lu tesoru di lu castiddrazzu”.
Questa leggenda è riportata alle pagine 147-148 del testo “Folklore di Delia” del prof. Luigi LaVerde. Nel racconto si legge che il tesoro è custodito da “un rignanti saracinu ccu nna mazza ‘mmanu e cruna ‘ntesta”.
Quindi nella nostra leggenda sono gli arabi che nascondono il loro tesoro per l’arrivo dei conquistatori normanni e lo nascondono proprio in un sotterraneo del “castellaccio”.
Questa nostra tradizione orale vuole, quindi, che gli arabi vissero nel nostro territorio, avevano conquistato il “castellaccio” (roccaforte bizantina), l’avevano fortificato e fatto diventare un vero e proprio castello ai piedi del quale avevano dato vita al casale di Sabuci.
Periodo Normanno-Svevo-Aragonese
Dopo la dominazione araba il poderoso castello di Sabuci fu espugnato dai Normanni ed ulteriormente ampliato e fortificato.
Sabuci, prospero e popoloso come c’é lo aveva descritto Idrisi, alla fine del 1100, subito dopo la morte di Guglielmo II il Buono, decadde a semplici casale per la sanguinosa guerra civile che si scatenò contro i mussulmani che vennero uccisi in massa dopo il 1189.
Pertanto il castello di Sabuci e il suo casale arabo ormai svuotato, che fino ad allora erano appartenuti ai vari sovrani normanni ed erano stati pertanto proprietà demaniale, nel 1200 come ci dice Vito Amico nel suo Lexicon il castello e il casale arabo di Sabuci furono concessi alla chiesa di Palermo(concessione confermata nel 1211) durante il regno dell’allora piccolo Federico II incoronato re di Sicilia a soli 4 anni nel 1198.
Nel 1296 Corrado Lancia riceve da Federico III i proventi del casale di Sabuci e di Delia. Sicuramente gli aragonesi in quel periodo acerrimi nemici del papa tolsero alla chiesa palermitana i proventi sul casale e il castello di Sabuci per concederli ai loro fedelissimi.
Nel 1299 Pietro Lancia nipote di Corrado Lancia risulta concessionario dei proventi della città di Delia e del casale di Sabuci(il castello di Delia resta a Blasco Alagona).
Nel 1362 Eleonora d’Aragona figlia di Cesaria Lancia e del duca Giovanni di Durazzo, sposa Guglielmo Peralta portandole in dote Sabuci, la città ed il castello di Caltanissetta.
Nel 1362 finita la guerra civile re Federico il Semplice ordina la distruzione del castello di Sabuci che poteva servire come covo per nuove ribellioni.
Nel 1436/37 Guglielmo Raimondo Moncada ottiene la licenza regia per costruire il castello di Sabuci distrutto durante la guerra civile del 1361/62.
Dopo la fondazione di Delia è probabile che il castello non essendo più frequentato cadde in abbandono e alla fine del XVI secolo era già semidistrutto.
Nel 1878 il castello fu inserito tra i monumenti del Regno e usufruì del primo restauro.
Da allora per circa cento anni quei solitari elementi costruttivi del maniero: le mura merlate incollate nella roccia scavata da grotte e percorsa da sotterranei, le volte ogivali, le finestre sgretolate dall’abbandono secolare hanno atteso l’intervento restauratore della mano dell’uomo che sembrava avere dimenticato secoli di storia.
La Statio Petiliana
Nel primo secolo dell’era cristiana tutta la Sicilia fu interessata da un notevole sviluppo delle attività agro-pastorali.
La maggior parte delle terre erano di proprietà di ricchi romani che stavano quasi sempre nella capitale.
Questi facoltosi romani avevano a loro servizio gli “actores”, gli amministratori, che gestivano i loro grandi fondi che venivano chiamati dai latini “praedia” e portavano il nome del loro proprietario.
I latifondi o “praedia” di cui facevano parte i territori di Delia, Caltanissetta, San Cataldo e Serradifalco erano di proprietà di tale nobile romano Petilio, e quindi venivano chiamati in latino
“Praedia Petiliana”.
Nell’Itinerario di Antonino Caracalla, la stazione lungo la strada Catania- Agrigento che fu costruita nel latifondo del suddetto Petilio, veniva chiamata “Petiliana”.
La stazione (Statio) era un luogo di sosta e di soggiorno degli antichi romani per il cambio dei cavalli dopo una giornata di marcia lungo le strade che venivano costruite nei territori conquistati per motivi commerciali e per controllare meglio le popolazioni sottomesse.
Dopo accurati studi condotti sulle ricerche fatte da eruditi e geografi, che fin dal XVI secolo cercarono di identificare i luoghi indicati nell’ “Itinerarium Antonini” con località moderne, si può affermare sicuramente che sul posto in cui si trova Delia sorgeva una volta l’antica Statio Petiliana.
Lo studioso Pietro Carrera (1571-1647) constatò coi suoi occhi che su una locanda di Delia, paese nato da qualche anno, vi era scritto: “Hospitatoria Taberna Petiliana”, pertanto potè identificare con assoluta sicurezza il nostro paese con l’antica Petiliana.
Nel suo “Lexicon Topographicum Siculum” Vito Maria Amico nel 1759 così scriveva: “Delia….si crede sia la località denominata Petiliana, che nell’Itinerario Romano distava da filosofiana 28 miglia, da ciò posso stabilire essere questo il luogo (Petiliana); e che, dice la gente, sia stata ornata da un tempio della Dea Delia Diana, donde prese il nome”.
La Statio Petiliana a Delia, con molta probabilità sorgeva nell’attuale Piazza Castello.
Con precisione l’isolato delimitato dalla Piazzetta Castello, dal Vicolo Castello, dalla Via Municipio e dal muro a sud dell’ex cinema “Dante” potrebbe essere stato il luogo dove sorgeva la “Statio”.
Pertanto si può affermare che già nel 2° secolo d.C. Delia, sede della Stazio Petiliana, era abitata e piena di vita in quanto luogo di passaggio e di sosta delle pattuglie romane che verosimilmente, stante la testimonianza di Vito Amico, veneravano Delia, Dea della caccia, in un piccolo tempio non distante dalla Statio Petiliana proprio nel posto in cui, oggi, sorge la Chiesa Madre; del resto con l’avvento del cristianesimo tanti templi pagani, in quei tempi, furono trasformati in chiese.
Il Casale e il Castello Medioevale
La storia ufficiale di Delia inizia nel 1271.
In quell’anno il nome di Delia spunta per la prima volta in un documento storico nel quale veniva scritto che il re francese Carlo D’Angiò stacca dal demanio il casale di Delia per concederlo a Raimondo de Pluja.
Il casale di Delia resterà al De Pluja fino al 1282 quando con la guerra del vespro i francesi o vengono uccisi o cacciati dall’Isola.
Il casale ed il castello sorgevano nell’attuale Piazza Castello, luogo che i deliani ha sempre chiamato “Castieddru” che per gli antichi romani aveva il significato di insediamento abitativo (castrum).
Si deve, pertanto, ritenere che in questo luogo vi sia stato fin dal periodo romano un qualche insediamento abitativo che nel periodo dell’alto medioevo si ingrandì divenendo casale e vi si costruì il castello proprio là dove sorgeva l’antica Statio Petiliana.
Il casale di Delia resterà al De Pluja fino al 1282 quando con la guerra del vespro i francesi o vengono uccisi o cacciati dall’Isola.
I Francesi angioini dominarono la Sicilia per 14 anni, dal 1268 al 1282.
Per tutti i siciliani furono gli anni più disastrosi dall’anno 1000 in poi.
I francesi vedevano tutti i siciliani come ribelli da sfruttare al massimo e introdussero un nuovo tipo di feudalesimo violento, altezzoso ed esoso.
Quindi allo scoppio della guerra del vespro anche il popolo deliano, ben motivato perché stanco dei soprusi e delle angherie del re Carlo, si rivoltò contro la guarnigione francese che sicuramente presidiava il castello del loro signore Raimondo de Pluja.
I siciliani per paura della sicura invasione del Re francese Carlo d’Angiò, preferirono offrire il trono di Sicilia al re spagnolo Pietro III d’Aragona.
In una lettera di re Pietro III del 26/01/1283 si chiedono 26 cavalieri e 40 arcieri a Naro, nessun cavaliere e 30 arcieri a Caltanissetta, nessun cavaliere e 6 arcieri a Delia, nessun cavaliere e 2 arcieri a Milocca.
Da questo documento si evince che nel 1283 la città più grande ed importante della zona era Naro che per questo diventerà sede di comarca, mentre Caltanissetta, Delia e Milocca erano considerati dei semplici “casalium” ma, a differenza di altri casali forse più piccoli, furono presi in considerazione dal re che chiese loro arcieri per la sua guerra contro gli angioini.
Delia pertanto partecipò attivamente agli avvenimenti della guerra del vespro che durò dal 31 marzo 1282 al 1302, anno della pace di Caltabellotta.
Nelle alterne vicende di questa lunga guerra tanti castelli passarono nelle mani ora degli spagnoli ora dei francesi.
Anche il castello di Delia nel giugno del 1300 subì tale sorte.
Il castello che era occupato dalle milizie di re Federico, per il tradimento di Giobbe e Roberto Martorana, passò nelle mani dei francesi, ma per poco tempo poiché Berengario D’Entenza un guerriero di re Federico lo riconquistò punendo i traditori.
Agli Angioini francesi succederanno gli spagnoli Aragonesi che domineranno l’Isola per più di quattro secoli fino al 1713( trattato di Utrech).
Dopo Raimondo de Pluya con alterne vicende il casale e il castello di Delia passarono nelle mani di numerosi nobili feudatari:
1283: Alaimo da Lentini
1287: Corrado Lancia
1294: Raimondo Alemanno de Cervellon
1296: Pietro Lancia
1297: Artale Alagona
1366: Matteo Chiaramonte
1374: Andrea Chiaramonte
1392: Guglielmo Raimondo Moncada Peralta
1392: Pietro Mazza
1399: Andrea Ortolano
1581: Gaspare Lucchese che fonda il paese di Delia nel 1597.
Il Nome di Delia
Sull’origine del nome “Delia” allo stato attuale esistono quattro ipotesi.
L’ipotesi più accreditata è quella che fa derivare il nome Delia dall’arabo “Daliyah” che significa vigna.
Il casale di Delia di cui si hanno notizie storiche soltanto nel 1271sicuramente esisteva anche durante il periodo della dominazione araba come un piccolo aggregato umano autoctono di origine bizantina che viveva attorno a quella che un tempo era stata la Statio Petiliana, nell’attuale Piazza Castello.
Gli arabi che si erano stanziati ai piedi del castello di Sabuci, l’attuale “castiddrazzu”, è probabile che chiamavano quel piccolo villaggio Daliyah-Vigna per la presenza di vigneti nei suoi dintorni e particolarmente in quella zona dove si formerà l’odierna Via Vignazza.
La seconda suggestiva ipotesi sull’origine del nome di Delia è quella che lo collega all’antico culto preistorico dei “Delli” o “Delloi”.
Il culto praticato nel nostro territorio dai nostri antichi progenitori, i Sicani, era quello delle
“Sorgenti Calde”.
Delia e le sue campagne sono ricchissime di acqua sulfurea che comunemente viene chiamata “acqua mintina”.
Sappiamo che moltissime zolfare hanno bucato le terre delle nostre contrade Grasta, Grastiddra, Pascibue, Gebbiarossa, Ramilia e Deliella, con gallerie, cunicoli, pozzi e calcheroni.
Era quindi più che naturale che anche nel territorio deliano nascesse e si sviluppasse il culto per una potenza sotterranea associata a un fenomeno naturale: le sorgenti di acque caldi.
Nel territorio di Caltagirone era diffuso, ad esempio, il culto dei “Fratelli Palìci” così infatti erano chiamate i due sfiatatoi principali del gas della sorgente.
Nel territorio di Butera più vicino al nostro erano venerati, invece, i “Delli oppure Delloi”.
Di quest’ultime divinità parla lo scrittore latino Polemone che dice che questi crateri, i Delli, erano così profondi che potevano ingoiare interi buoi.
Lo storico Navarra afferma, con acute e dotte argomentazioni, che il culto dei “Delli o Delloi” si praticava presso Butera nella contrada Deliella che da queste divinità derivò il nome.
E’ probabile pertanto che anche Delia e la sua contrada Deliella abbiano questa stessa origine.
La terza ipotesi è quella di Vito Amico il quale nel suo “Lexicon topographicum Siculum” si esprime così: “Si crede che Delia sia Petiliana, luogo che nell’Itinerario Romano distava 28 miglia da Filosofiana e 18 miglia da Agrigento, come riferirò a suo posto, e si dice comunemente che fosse ornato d’un tempio della dea Diana Delia, donde prese il nome”.
Se consideriamo che gli antichi templi pagani nell’era cristiana venivano trasformati in chiese, che l’odierna chiesa Madre esisteva già nel 1300 e che si trova molto vicino alla Piazza Castello dove si ritiene sorgeva la Statio Petiliana, l’ipotesi di Vito Amico che a primo acchito sembra abbastanza fantasiosa deve fare riflettere gli studiosi.
La quarta ipotesi dello storico Biagio Pace, richiamandosi all’antica Statio Petiliana, fa derivare il nome Delia da Petilia o Petelia da cui per la caduta del Pe iniziale è venuto fuori prima Telia e poi Delia.
Nella tradizione orale, infatti, Delia è detta Petilia o Petelia che è stato anche il nome della via principale del paese prima che fosse rinominata Corso Umberto.
La fondazione
Le città nuove di Sicilia sorte tra il XVI e il XVII secolo servirono a contenere la esuberante crescita delle popolazioni nelle grosse città demaniali e nello stesso tempo furono molto utili ai contadini che erano senz’altro più vicini al loro posto di lavoro: la terra.
I baroni feudatari fondarono nuovi paesi non certo per sensibilità a fronteggiare la disoccupazione, ma per volontà di guadagno speculando sul lavoro a basso prezzo degli affamati contadini e sia per i vantaggi politici che ne traevano in quanto non solo acquisivano il diritto di entrare nel parlamento siciliano ma aumentavano il loro prestigio e l’autorità in sede locale.
Pertanto la pressione demografica e soprattutto la lontananza delle nuove terre vergini messe a coltura fecero esplodere, fin dagli inizi del 1600, la necessità impellente di creare nuovi centri abitati. Così in quegli anni sorsero circa 150 nuovi comuni in tutta la Sicilia. Delia fu una di queste “città nuove”.
Nel 1581 il feudo e il castello di Delia passarono dalla famiglia Ortolano alla famiglia Lucchese e precisamente se ne investì Gaspare Lucchese figlio di Giuseppe e di Francischella Ortolano.
Il feudo era spopolato e le terre migliori venivano coltivate da abitanti di Naro, Enna e Caltanissetta.
Per tutto quanto detto sopra, anche il barone Gaspare Lucchese nel 1596 presenta domanda al Viceré per ottenere lo “ius populandi” su Delia e cioè il diritto di potere costruire un nuovo paese nel suo feudo.
Il Viceré allora chiese informazioni sulla baronia ai Secreti e ai Giurati delle città demaniali vicine di Agrigento, Naro e Licata.
Quelle autorità risposero che la baronia di Delia era disabitata e che le uniche costruzioni esistenti erano un castello e nei suoi pressi una chiesa con attorno ruderi di case antiche.
Nel Febbraio del 1597 il Viceré concesse la licenza con riserva di conferma regia di Filippo II di Spagna che la confermò il 24 Dicembre 1597.
Tutte le città nuove di Sicilia, sorte nel 1600 con licentia populandi rilasciata dai re spagnoli, presentano interessanti analogie con i nuovi centri abitati delle Americhe costruiti dagli spagnoli e per i quali Filippo II emanò un’apposita legge urbanistica nel 1573.
Delia, come tutte le altre “città nuove” di Sicilia non ruota attorno al suo castello che rimane ormai decentrato ma, secondo le nuove direttive urbanistiche, il centro propulsore del paese diventa la Chiesa, la Piazza, il Palazzo baronale.
Da questo centro direzionale si dipartono le strade con le abitazioni dei contadini e degli artigiani. Il tutto è a pianta ortogonale e le strade dritte come canne si intersecano ad angolo retto formando isolati di diversi dimensioni, accoglienti un numero vario di abitazioni e accessibili all’interno attraverso aree comuni non edificate: i cortili.
Questa tipologia di impianto urbanistico ormai è poco riconoscibile, infatti, è rimasto soltanto l’impianto ortogonale del centro storico.
Delia dal 1600 ad Oggi
Delia si sviluppò molto celermente e già, dopo circa dieci anni dalla licenza di fondazione il nuovo centro urbano contava 250 fuochi e cioè circa 1000 abitanti, aveva quattro chiese ed un convento.
Il barone Gaspare Lucchese perse il padre, don Giuseppe, nel 1606 e dopo due anni fece atto di donazione del feudo e della terra di Delia al figlio Giuseppe di appena 12 anni.
Morì nel 1612 all’età di 41 anni e fu sepolto a Palermo nella tomba della moglie Vincenza Spatafora, baronessa di San Fratello che nel 1638, dopo avere rinunciato a tutti i suoi averi si fece monaca.
Giuseppe Lucchese nel 1623 ricevette da Madrid il titolo di Marchese.
La famiglia Lucchese tenne il marchesato fino al 1698 quando ne ottennero il possesso i Gravina, Principi di Palagonia a seguito del matrimonio tra Anna Maria Lucchese con Ferdinando Francesco Gravina.
Ferdinando Francesco Gravina, costruì a Palermo il sontuoso palazzo alla Gancia e a Bagheria, intorno al 1715, iniziò la famosa “villa dei mostri” che fu continuata da don Ignazio Sebastiano e abbellita dal nipote Ferdinando Francesco che la popolò con circa duecento grottesche e bizzarre statue di mostri.
Ultimo marchese di Delia fu don Francesco Paolo Gravina il quale morì nel 1854 senza figli e lasciò tutti i suoi averi ai poveri del ricovero Malaspina di Palermo.
Il 1800 fu un secolo di grandi sconvolgimenti sociali e anche la nobiltà già fin dal settecento era piombata in una crisi economica profonda.
Nel 1812 il re decretò l’abolizione della feudalità.
Delia faceva parte del territorio di Naro, una delle 42 comarche in cui era divisa la Sicilia.
A seguito dell’attuazione della nuova circoscrizione territoriale della Sicilia voluta da re Ferdinando I di Borbone nel 1819, Caltanissetta fu elevata a capoluogo di provincia e anche Delia fu staccata da Agrigento per far parte della nuova circoscrizione nissena.
Secondo le indicazioni del Concordato del 1818 tra il papa Pio VII e re Ferdinando I, non si tardò tanto a fondare nuove circoscrizioni di diocesi che potessero rispondere più da vicino ai bisogni spirituali e religiosi dei fedeli, ormai cresciuti molto di numero.
Pertanto, Caltanissetta divenne sede vescovile con la bolla di Gregorio XVII del 25 Maggio 1844 e Delia assieme ad altri quindici paesi dell’omonima provincia fecero parte della nuova diocesi.
Dal punto di vista amministrativo il comune di Delia fin dal 1820 e fino agli inizi del Novecento fu nelle mani del ceto della grossa borghesia terriera, senza dubbio, la principale protagonista della storia dell’ottocento deliano.
La classe dirigente politica dei borghesi galantuomini guidò i deliani nei moti separatisti risorgimentali del 1848 nell’intento di conseguire l’indipendenza dal governo borbonico del Regno di Napoli.
Come ci racconta lo storico del tempo G. Mulè Bertolo, dopo qualche settimana dall’insurrezione di Palermo e il giorno dopo quella di Caltanissetta anche i deliani il 30 Gennaio 1848 innalzarono la bandiera tricolore al grido unanime di “viva la Costituzione, viva la Federazione Italiana, viva Palermo, viva Ruggero Settimo”.
I deliani, pertanto, animati da spirito patriottico, parteciparono attivamente alle lotte risorgimentali e concorsero con 533,10 onze (6.800 lire) al prestito forzoso deliberato il 27 Dicembre 1848 dal Parlamento Siciliano.
Delia fece parte della 48° associazione intercomunale per l’elezione dei deputati al Parlamento Siciliano.
Ma i moti rivoluzionari furono subito repressi e i borbonici, ritornati al trono di Sicilia, restaurano il vecchio ordine.
Il patriottismo dei deliani fu così sopito ma rimase l’anelito per la libertà e per un cambiamento delle degradanti condizioni socio-economiche anche se le aspirazioni separatiste e di indipendenza lasciarono nel tempo il posto alla tesi di un’Italia unita sotto la monarchia dei Savoia.
Lo sbarco dei mille suscitò tra i deliani un grande entusiasmo ed un nutrito gruppo di giovani si unì all’impresa di Giuseppe Garibaldi per la cacciata dei borbonici dalla Sicilia. Intanto, il 7 Giugno, Garibaldi aveva decretato che i comuni delle province di Palermo, Caltanissetta e Agrigento versassero dei contributi obbligatori in muli, cavalli e tela.
Nel Giornale Officiale di Sicilia del 1860 al numero 91 si legge: “Il Comune di Delia con prontezza degna di encomio ha versato la somma di ducati 178 equivalenti al prezzo della tela e degli animali dovuti pel contingente dell’esercito nazionale”.
Dopo l’unità d’Italia la storia di Delia si uniformò a quella siciliana e alla vita della Nazione.
Anche Delia partecipò alla guerra d’Africa con undici dei sui figli dei quali uno vi lasciò la vita.
Lo scoppio della prima guerra mondiale del 1915-18 costò alla comunità 52 caduti e 37 tra mutilati ed invalidi.
Nel periodo fascista Delia pagò il suo contributo di sangue con tre caduti nella guerra contro l’Abissinia e 34 vittime nella seconda guerra mondiale.
Nel dopoguerra a causa della chiusura delle miniere e la crisi del settore agricolo la comunità subì un massiccio esodo migratorio verso le Americhe ed il nord Europa.